Seguo
da anni, quando e come posso, l'iniziativa Music Freedom Day, grazie
all'invito sempre rinnovatomi personalmente dalla promotrice Chiara
Stefani. Recentemente ho tradotto in francese la Carta dei Diritti
Civili dell'Artista, alla cui elaborazione e stesura non ho potuto
partecipare. Ho quindi letto molto attentamente il testo per tradurlo
e pur apprezzando l'iniziativa preferisco non dilungarmi qui negli
elogi e nel sottolineare i tanti aspetti interessanti di questa
iniziativa e la stima personale, ma esprimere piuttosto, con
sincerità e rispetto per il lavoro fatto da altri, i miei dubbi e le
mie perplessità.
Premetto
che in generale le “Carte”, i “Manifesti”, le
“Dichiarazioni”, hanno per me una importanza relativa, nel senso
che tendono a una generalizzazione, a una sintesi, a una
cristallizzazione delle problematiche che spesso limita la loro
importanza storicamente, sovente pochi le rispettano, diventano come
dei fari a volte un po' ideologici che non illuminano abbastanza i
micro-fenomemi quotidiani e locali.
Venendo
al dunque, la prima domanda che mi pongo, leggendo la carta, è: chi
è l'Artista di cui si parla? Chi definisce questa figura sociale?
Chi si auto-definisce Artista? Chi viene definito Artista?
C'è
forse in generale una confusione di fondo nel mischiare problematiche
inerenti i diritti umani con altre che riguardano i diritti civili e
sociali sotto forma di rivendicazione di ordine piuttosto sindacale.
Proseguendo
nella confusione mi pongo la domanda conseguente: cos'è l'Arte di
cui si parla? Chi definisce che una pratica o un'opera è Arte nella
società? Di quale società? Passata? Futura? Presente? Occidentale?
Bolognese? Degli indios di tutto il mondo in via di estinzione? Degli
zingari? Di Sanremo? Dei jazzisti? C'è un problema di ordine
estetico.
Intravedo
inoltre una confusione di piani generali (i primi due articoli tipici
di una Dichiarazione Costituente) e particolari (rivendicazioni
specifiche tipiche di normative e applicazioni di legge).
Nel
mondo in cui viviamo nessuno oserebbe negare la validità dei primi
due articoli, il discorso si fa quasi ovvio e scontato, proprio
perché già sviscerato da altre Costituzioni e Dichiarazioni
Universali ormai largamente accettate teoricamente. E' piuttosto
nelle condizioni pratiche che riguardano gli altri articoli che le
cose si fanno più ardue. Penso che sarebbe meglio separare il
discorso e farne delle vere e proprie rivendicazioni, ma a questo
punto diventano per forza problematiche locali e non generalizzabili
a tutta l'umanità. Inoltre l'articolo 2 parla di “patrimonio” e
“valore”, due termini economici che mi piacerebbe
provocatoriamente sostituire con “matrimonio” culturale e “uso”
sociale delle pratiche artistiche.
Venendo
alle “rivendicazioni”, personalmente non so se aderirei ad una
campagna per ottenere il riconoscimento burocratico di nuove
“categorie professionali”, anzi, forse è proprio la
“professionalizzazione”, illichianamente parlando, il problema.
Il nocciolo duro è proprio nel tentativo di uscita da una logica di
mercato e di spettacolarizzazione, di mercificazione, poco importa se
quella logica è etero-gestita o auto-gestita, anzi, forse ci hanno
colonizzato il mondo della vita (Habermas) e l'immaginario
(Castoriadis) se abbiamo interiorizzato quella logica e la
auto-produciamo noi stessi.
Non
si può poi generalizzare la questione dell'artista-autore, perché
ci sono culture in cui non esiste questa concezione, sia storicamente
sia oggi nel pianeta terra, culture in cui l'individuo è singolare
ma non autistico o egocentrico al punto di pensare di essere
produttore di brevetti ad ogni scoreggia che gli esce per sbaglio.
Siamo
parte del mondo in cui viviamo, siamo interpreti del mondo in cui
viviamo, più o meno geniali e più o meno riconosciuti, più o meno
utili agli altri, più o meno inutili agli altri, tutto qui, il resto
sono questioni commerciali che riguardano le merci artistiche e
umane.
Per
quanto riguarda la “performance”, è un termine che viene spesso
utilizzato oggi in ambito economico e spesso riguarda logiche
“competitive”, cercherei quindi di trovare altri termini che
esprimano meglio la condivisione di un “Duende”.
Per
ciò che concerne la “formazione” devo dire che personalmente ho
sempre prediletto l'auto-formazione e penso che la scuola pubblica
sia molto diversa da una scuola popolare realmente autogestita
collettivamente.
Questi
sono solo alcuni spunti di riflessione anche un po' istintivi e non
una critica polemica alle intenzioni dei redattori della Carta, spero
di continuare a riflettere con voi tutti e vi saluto tutti non
potendo partecipare il prossimo 5 marzo 2016.
TORE
PANU
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