mercoledì 17 febbraio 2016

Alessandro Rocchi - Cultura digitale (e musicale) tra censura e libertà

Mi piace sfogliare il vocabolario, con la scusa di approfondire il significato di una parola o le sue possibili varianti e origini. Così ho fatto anche stavolta cercando il significato della parola censura. L’indagine non è banale, perché la definizione a ben vedere è aggiornata al secolo scorso: “Esame, da parte dell’autorità pubblica o dell’autorità ecclesiastica, degli scritti o giornali da stamparsi, dei manifesti o avvisi da affiggere in pubblico, delle opere teatrali o pellicole da rappresentare, che ha lo scopo di permetterne o vietarne la pubblicazione, l’affissione, la rappresentazione, ecc., secondo che rispondano o no alle leggi o ad altre prescrizioni”.

Nella civiltà attuale, super mediatica e fondata su Internet, sono quotidiane le illazioni e le denunce che lamentano il controllo della cultura (e dell’informazione) da parte di Stato, Sovrastato, poteri forti, banche, lobby, sedicenti massonerie, corporazioni, sindacati e partiti vari etc (la lista potrebbe essere lunga quasi a piacimento).

Nel marasma di situazioni in cui la libertà d’espressione sembra irrimediabilmente corrotta dal giogo di gruppi di potere che vorrebbero asseritamente controllarla, ci sfugge la presenza di un nuovo protagonista comparso – suo malgrado – proprio sul palcoscenico della cultura digitale: noi stessi.
Internet (e più in generale lo scambio di contenuti digitali) è un’esperienza al centro della quale c’è l’utente, il navigatore, in altre parole noi. Il vero problema è se quel noi voglia (e possa) essere soggetto invece che oggetto: il confine è sottile. Appena ci colleghiamo col web da essere apparentemente padroni delle nostre ricerche, finiamo con lo scoprirci pedinati attentamente. Ci dicono che i nostri dati di navigazione e le nostre preferenze saranno raccolti ed elaborati per fornirci “un’esperienza utente migliore”, ma l’espressione è solo ruffiana. Vogliono tracce di noi per inviarci pubblicità mirata.

Eppure Internet è nata per essere user-centric, per avere noi al centro: il primo decennio del 2000 è stato quello dell’ascesa dei blog, i diari on line che chiunque poteva aprire per dare sfogo a commenti politici, musicali, ricette di cucina e varie amenità. I blog più originali sono diventati famosi. I blogger più bravi oggi hanno finestre riservate sulle principali testate giornalistiche (pensate all’Huffington Post, nato come collage di articoli redatti da blogger!). 
Successivamente il focus è passato dai blog ai social network, ma qui sono le nostre vite a diventare il contenuto da veicolare in rete.
In tutta questa serie di passaggi la nostra cultura, il sapere e la conoscenza, sono state trasferite nel mondo digitale e rese (almeno in parte) disponibili su Internet, a pagamento o per libera iniziativa di utenti. E’ a questo punto che sono emerse nitidamente due limitazioni importanti alla libera circolazione del sapere (e della cultura).
Una prima limitazione esisteva già e si è dovuta adattare ai tempi: è il diritto d’autore (copyright alla maniera anglosassone). Il diritto d’autore rappresenta il tentativo dello Stato di tutelare l’opera creativa in tutte le sue forme. Hai elaborato una musica, un testo narrativo, una trama teatrale oppure un software originale? Bene! Lo stato ti attribuisce il potere di disporre della tua opera come meglio ritieni: “tutti i diritti sono riservati – All Rights reserved”! Vi sarà capitato di leggere in calce a un libro o ad un cd queste paroline… Significano che, se non hai il permesso dell’autore, quel libro, quel cd, quel video etc etc non li potrai utilizzare: rimarranno, per te, sapere inaccessibile.

In questo schema l’Autore sembra “al centro del mondo” ma la pratica ci ha insegnato che, dove circolano capitali, gli editori utilizzano la loro capacità economica e organizzativa per acquisire i diritti degli autori in cambio di royalties, di fatto sostituendosi agli autori nella gestione dei “permessi di utilizzo” delle opere creative. Questo scenario, con la crisi economica degli ultimi decenni, ha colpito duramente il sapere in generale: le biblioteche pubbliche (anche universitarie) hanno sempre meno fondi per acquistare libri, cd e opere creative e i grandi editori (nel frattempo aggregati in pochi macro-soggetti, dopo tante fusioni) hanno fatto valere un potere quasi monopolista, imponendo la scelta delle opere e il loro prezzo d’acquisto. Il risultato è che oggi la diffusione del sapere, scientifico e culturale in senso ampio, è fortemente messo a rischio dalle scelte commerciali dei grandi editori. Lo Stato è sempre più povero e non riesce a garantire libero accesso al sapere: ad essere pubblicati e conservati nelle biblioteche ed emeroteche non sono sempre le migliori opere o le migliori ricerche scientifiche. 

L’asservimento di autori ad editori e l’incapacità degli Stati sovrani di orientare la selezione editoriale e la fruibilità dei contenuti ci conducono ad una nuova forma di condizionamento del sapere, dove un ruolo importante è segnato dal commercio e dalle sue oligarchie.
La seconda limitazione è meno complessa, ma sorprendente: sono le nostre libere scelte. Quando navighiamo in rete, condannati alla nostra rapidità di ricerca, alla velocità di lettura, all’apprendimento immediato, operiamo anche noi una selezione di ciò che troviamo e tanto più la selezione sarà fulminea, tanto potrebbe essere allineata alla volontà commerciale dei grandi editori. Un po’ come entrare in libreria e anziché rovistare tra gli scaffali comprare subito uno dei titoli in vetrina. 
Potrebbe non essere un gran problema, se non fosse che nel mondo di Internet la selezione dei contenuti da cui scegliere viene effettuata dai motori di ricerca (leggi: Google, Youtube etc) e i motori di ricerca selezionano il sapere in base a criteri di rilevanza spesso ignoti, intuitivamente privilegiando contenuti dal profilo commerciale più significativo. 

La stessa cosa avviene sui social network dove siamo noi a scegliere cosa condividere e con chi. Mettere in piazza la nostra vita è una nostra scelta; anche se spesso non ce ne rendiamo conto siamo noi a scegliere cosa vogliamo che sia ricordato oppure dimenticato. D’altronde, cosa sono il sapere e la cultura se giacciono dimenticati in un magazzino (pensiamo all’ultima pagina dei risultati di Google che nessuno considera) e magari chiuso a chiave (col lucchetto del diritto d’autore)?
Oblio generato dalle nostre scelte e il diritto d’autore, oggi, rappresentano il vincolo più pesante alla libertà di divulgazione culturale, ma sono anche due elementi naturali del sistema: scegliere è nella natura delle cose e parimenti, a ben vedere, la legge sul diritto d’autore permette a chiunque di decidere liberamente la sorte delle proprie opere creative.
Il problema quindi è l’approccio a questi aspetti. Prendiamo un esempio che ci sta a cuore: la musica.
La nascita di piattaforme, come Spotify, Deezer, sembra quasi un compromesso nel contenzioso che da anni oppone la pirateria informatica alle major discografiche. Un piccolo canone mensile e si ottiene libero accesso a tutta la musica del mondo. Tutta tutta? No, in realtà si tratta solo di quella selezionata dall’impresa commerciale che vende il servizio. 

A cambiare gli equilibri del sistema, dunque, non possono essere le nuove imprese da sole ma devono essere i singoli Autori e utenti, dal basso e in proprio, dando vita ad iniziative e nuovi modelli di produzione e fruizione musicali aperti. Dal lato degli Autori per esempio possiamo pensare alle piattaforme di crowdfunding per la raccolta di fondi su progetto (es. musicraiser.com), ai network per la ricerca di collaborazioni (es. epsteim.org), ai progetti informativi e culturali (es. promuoveremusica.it), alle comunità open source che lavorano su software musicali aperti, utili ad esempio per le registrazioni (es. libremusicproduction.com).
Il progetto di un’artista può essere realizzato in comunità e grazie alla comunità. La promozione avverrà su canale diversi da quelli del mainstream ma le risorse non mancheranno, anche per chi dovesse decidere di affidarsi ai produttori indipendenti (in Italia una associazione che ne raccoglie diversi è PMI, pmiitalia.org).

A questo punto al nostro Autore musicale manca l’anello di congiunzione con l’utente finale del prodotto musicale. Chi si rivolge ai produttori indipendenti vedrà proposte varie soluzioni e potrà dedicarsi alla promozione sui canali sociali e non. Una scelta innovativa invece potrà venire dall’applicazione alle opere musicali di regolamenti del diritto d’autore (licenze) non restrittive. 
Il diritto d’autore infatti può anche lasciar libero l’utente finale di ascoltare e condividere per uso personale alcuni brani, facilitandone la diffusione e magari lasciando a pagamento (diritti riservati) l’acquisto di un intero album, oppure di una confezione premium. Altra frontiera è l’abbinamento tra vendita e concerti: un trend reale degli ultimi anni sposta il lucro per i musicisti dalla vendita del cd/mp3 alla partecipazione live.
Insomma, ci sono margini importanti per una diffusione maggiore della cultura musicale nell’epoca di Internet e questo richiede non solo uno sforzo creativo e organizzativo da parte dell’Autore ma anche una predisposizione culturale maggiore da parte dell’utente finale. D’altronde il web è risorsa e sta a noi tutti saperla valorizzare.

Vuoi maggiori informazioni sui tuoi diritti di utente e/o Autore? Chiedi! info@cambiapasso.it

ALESSANDRO ROCCHI – Presidente Assoutenti AMB, associazione nazionale di consumatori e utenti.

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