lunedì 7 marzo 2016

Bruno Brunini - Le molteplici forme di censura culturale

 “Non leggo mai i giornali  al mattino  perché stampano solo quello che voglio io”. Ancora oggi fa riflettere questa affermazione di Napoleone III di Francia, quando si parla di censura culturale o più in generale di libertà di espressione.
Sebbene la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, abbia sancito dal 1948 l’intangibilità del diritto alla libertà di espressione, non sempre è possibile esprimere e far circolare le proprie idee. Nell’ambito artistico poi, in diverse parti del mondo, ci sono musicisti, poeti, registi, perseguitati, condannati, imprigionati, per la loro arte, da regimi dispotici che non tollerano voci dissonanti.
L’oscurantismo, l’intolleranza si sta diffondendo anche attraverso il terrorismo del fondamentalismo islamico. Il terribile attacco al Bataclan Club di Parigi del novembre 2015, ha colpito al cuore la musica e con essa i valori della libertà e della democrazia.
C’è quindi molta strada da fare per contrastare violenze e contraddizioni che minacciano la libertà di tutti. Come diceva Bobbio: “Il riconoscimento del valore della libertà non deve creare l’illusione della sua eterna durata”.


Per fortuna nel nostro paese gli artisti  non sono perseguitati o minacciati di morte, i poteri della censura culturale sono stati ridotti nel tempo, ma la censura non è mai scomparsa e si presenta in forme più subdole. Non tutti, infatti hanno le stesse opportunità di farsi conoscere e apprezzare per la propria ricerca artistica, a causa di un sistema di promozione e di comunicazione a senso unico, che funziona in base alla rete di amicizie, all’appartenenza a una corporazione o a gruppi ristretti che occupano posizioni di potere.

Un sistema trasversale, ramificato nelle istituzioni culturali, nell’editoria, nelle industrie discografiche, che non riconosce tutto quello che si produce al di fuori di questa logica. 
Specchio di questa situazione è la mancanza di indipendenza dei media e dei giornali più influenti che non rendono conto di una realtà molto più varia e imprevedibile di quella che rappresentano. Il loro silenzio equivale a una forma di censura che colpisce le voci critiche, chi è portatore di originalità. 


E’ vero che nell’epoca del web l’uso di internet offre la possibilità di ampliare la libertà di espressione e di partecipazione, ma la sua evoluzione non è lineare. Il vuoto di cultura che viviamo, l’omologazione, i condizionamenti dalle gerarchie di potere si riflettono anche nella rete, dove può succedere che molte opere valide finiscano per essere oscurate dalla massa enorme di messaggi, spesso irrilevanti.

Spazi di libertà e di riflessione su quanto accade, sono però creati anche da manifestazioni come il Music Freedom Day, che al di là del sostegno dovuto agli artisti  perseguitati e in pericolo di vita, possono servire a portare una cultura orizzontale, libera, accessibile a tutti, che in ogni campo dell’arte, valorizzi il dialogo e azioni concrete per divulgare le diverse attività artistiche dei soggetti del territorio, vittime del silenzio dei media, perché come ha scritto Nelson Mandela: “Essere liberi non significa solo spezzare le proprie catene,  ma vivere  nel rispetto degli altri ed agire per raggiungere la libertà di tutti”.


BRUNO BRUNINI

venerdì 26 febbraio 2016

CARTA DEI DIRITTI CIVILI DELL’ARTISTA - Music Freedom Day 2014

Art. 1 - L'Artista ha diritto a non essere censurata/o 
L'A. ha gli stessi diritti di qualunque essere umano (v.Costituzione Italiana e Carta Dei Diritti Umani). 
L'A. ha diritto di esprimersi liberamente ovunque, con qualunque linguaggio, forma e contenuto (purché non leda i diritti civili di altri esseri umani). 
L'A. ha diritto ad essere difesa/o e sostenuta/o dalla propria comunità di appartenenza. 
L'A. ha diritto ad associarsi liberamente e a costruire reti con altri artisti. 

Art. 2 - L’Arte ha diritto ad essere riconosciuta come patrimonio culturale e valore sociale. L'Arte è la libera espressione dell'individuo nella propria autenticità e come tale va promossa senza pregiudizi. Tutte le arti hanno pari dignità e valore. 
L'A. ha il diritto/dovere di dar voce ad altre soggettività che non hanno mezzi e modi di espressione. 
L'Arte di singole comunità etniche/geografiche va riconosciuta e promossa come patrimonio dell'umanità. 
Il valore del processo creativo che porta al prodotto va riconosciuto in ugual maniera dell'opera. 

Art. 3 - L'Artista ha diritto ad essere riconosciuta/o come categoria professionale 
L'A. ha diritto a mantenersi dignitosamente col proprio lavoro. 
L'A. ha diritto ad essere considerata/o lavoratrice/tore, anche se non è dipendente di Enti Pubblici dello Spettacolo (orchestre, teatri, musei, televisione, ecc.). L'A. ha diritto ad essere riconosciuta/o anche se non possiede una formazione accademica o convenzionale. 
L'A. ha diritto a forme di retribuzione e sostegno, anche per il lavoro culturale e l’opera intellettuale. 
L'A. ha diritto ad un reddito minimo, anche nella fase di ricerca e non solo per la produzione di opere. 

Art. 4 - L'Artista ha diritto a non essere sfruttata/o e strumentalizzata/o ad altri scopi 
L'A. ha diritto a non essere condizionata/o o lesa/o dalle leggi del mercato. 
L'A. ha diritto a creare un mercato alternativo a quello commerciale attraverso forme di auto- produzione a basso costo e ad ampia diffusione, sia fisiche che virtuali. L'A. ha diritto alla libera distribuzione e visibilità delle proprie opere. 
L'A. ha diritto ad autorappresentarsi liberamente, anche per quanto riguarda la propria immagine. 

Art. 5 - L'Artista ha il diritto di performare liberamente L'A. ha diritto di performare sul suolo pubblico senza essere sorvegliato o perseguito. 
L'A. ha diritto a forme di agevolazione per l’esibizione in spazi pubblici. 
Le strutture private che ospitano performances artistiche hanno diritto a forme di agevolazione. 
L'A. ha diritto di entrare in contatto diretto col pubblico, e di educarlo anche a forme d’arte non commerciali. 

Art. 6 - L'artista ha il diritto di rivendicare la paternità/maternità della propria opera. L’Opera non è soltanto merce e non si può valutare con i meri criteri commerciali. La paternità/maternità dell’Opera non va ridotta soltanto alla questione del diritto d’autore. 
L'A. ha diritto di esautorare il ruolo della SIAE (o altre lobbies di monopolio), e riappropriarsi della gestione dei propri diritti d'autore.

Art. 7 - L'Artista ha il diritto di essere informata/o 
L'A. ha diritto ad essere informata/o sulle normative vigenti comunali e nazionali che la/lo riguardano per non incorrere involontariamente nell’illegalità o nel sistema punitivo. L'A. ha diritto a conoscere le ordinanze comunali che agevolano o permettono le manifestazioni pubbliche. L'A. ha diritto ad essere informata/o sulle risorse di cui potrebbe disporre (es. bandi, concorsi, ecc.). Art. 8 - Tutti gli esseri umani hanno il diritto ad una formazione artistica la scuola pubblica ha il dovere di sviluppare i potenziali creativi dell’individuo fin dalla tenera età. 
L'A. ha il diritto/dovere di contribuire alla formazione artistica dell'individuo operando nella scuola pubblica.

Difendere la libertà della musica non è parlare d'altro - Davide Ferrari

L'attacco a Parigi, ai suoi cittadini, ai suoi giovani, di etnie e storie diverse, si è concentrato, non a caso, sul Bataclan. Sono molteplici i simboli evocati da un terrorismo spietato e assoluto nella sua identità, e ambiguo nelle protezioni internazionali che ha ricevuto e riceve. 
Fra questi, più evidente è la musica, la partecipazione alla musica, una componente ineliminabile dalla vita di qualunque ragazza e qualunque ragazzo.
E' quindi opportuno che il Music Freedom Day di questo anno 2016 sia dedicato, in tutti paesi dove si svolgeranno iniziative, alle vittime della carneficina avvenuta in Francia.
La libertà della musica è la libertà stessa della vita, è parte del diritto a vivere.
Sappiamo, anche se così poco spesso ci viene ricordato, che le cellule dell'esercito nero -che oscenamente afferma di rappresentare l'universo islamico- i mitra che hanno ucciso nella capitale della Francia sono una tessera di un mosaico di sangue che stiamo vedendo estendersi nella rincorsa spietata fra il terrorismo e la guerra.
In queste ore sulla pelle dei popoli della Siria si combatte una guerra che vede le grandi potenze protese a ribadire la proprio primato assai più che a combattere l'Isis. Con angoscia 27 anni dopo la caduta del muro di Berlino assistiamo impotenti al riprodursi, senza vergogna, di sfacciati conflitti fra imperialismi. Quelli che vediamo sono giochi di morte
senza più i veli ideologici che il bipolarismo del dopoguerra adoperava, in qualche modo contenendosi per poterli mostrare. Mentre si racconta di scontri di civiltà, la realtà ci consegna una verità ben diversa, dove Stati e super-Stati si contendono basi e ricchezze del cuore mediorientale del nostro sviluppo.
Difendere la libertà della musica non è parlare d'altro.
La musica non ha parole ma vibra con i corpi, esprime la sua verità che è più forte di ogni divisione artificiosa e violenta fra i popoli e gli individui.
Naturalmente la musica è spesso anche altro: strumento di un consumo alienante, prodotto per distrarre o bandiera di una volgare diversità posticcia, di illusorie ma pericolosissime identità contrapposte e speculari.
Ma ancora non è nata una umanità che si accontenti di una musica serva dell'oppressione.
Ancora, e più, la musica è cultura, eternamente allo stato nascente, eternamente capace di proporre una creatività della nostra specie che non si può comprimere in un'ideologia, in una propaganda.
Lo sanno gli assassini e i guerrafondai, chi da' alla vita degli altri l'importanza che diamo ai granelli di sabbia mentre calpestiamo una spiaggia. 
Lo hanno sempre saputo.
La musica, come l'arte, sono per loro forze nemiche. In molti momenti nella storia sono rimaste le sole nemiche.
Le mani spezzate di Victor Jara prima del suo sacrificio sono ancora in mente a tanti della mia generazione, paradigma della musica oppressa e voce degli oppressi.
Ogni generazionde ha le sue immagini. Se le accostiamo vediamo maggiormente ciò che le accumuna anche se sembrano diverse, opposte. I giovani del Bataclan diventeranno l'immagine chiave per chi ha i loro anni. 
Ma questo accadrà se si avrà la capacità di comprendere che non solo la storia non è mai finita, com'è ovvio ormai per tutti, che gli avvenimenti non debbono essere accettati come fatalità incomprensibili, .hanno cause e colpevoli. 
Il Music Freedom Day porta il suo contributo, vuole far pensare e far discutere. Noi, anche quest'anno, ci saremo.

DAVIDE FERRARI poeta, Direttore artistico di Casadeipensieri

Racconti e riflessioni sulla censura nella musica di oggi in Italia - Salvatore De Siena

RACCONTI E RIFLESSIONI SULLA CENSURA NELLA MUSICA DI OGGI IN ITALIA

Parlare oggi di censura nella musica, richiede un’attenzione particolare, un punto di vista nuovo e degli strumenti di analisi diversi dal passato. Credo, infatti, che la censura che oggi avviene nella musica, ed in particolare in quella italiana, diversamente da un tempo, provenga soprattutto dai mass media e, cosa molto più preoccupante, dal pubblico che invece è quello che dovrebbe tutelare la libertà d’espressione artistica. A volte sono gli stessi artisti che censurano altri artisti e a volte gli stessi artisti si autocensurano. Anche le forme della censura sono cambiate. Non si censura più per il buon costume o per la religione ma per ragioni politiche o meglio dire partitiche. Impera il politicamente corretto che si declina come manifestazione di rispetto, educazione e civiltà. E questo determina per paradosso un innalzamento del baricentro della censura. Viviamo un momento storico in cui apparentemente c’è maggiore libertà artistica ma di fatto vi è una più profonda censura politica, un maggiore controllo sociale di cui, però, non sempre siamo consapevoli.

Certo non ci sono più gli uffici pubblici o peggio gli uffici politici della censura ma quella che proviene dai media, dal pubblico o dagli stessi artisti non è meno importante ed efficace, e soprattutto è più subdola perché meno visibile, meno identificabile e quindi più difficile da combattere.

Quanto ai media, credo che dietro al formale principio della libertà di stampa, libertà di parlare di una canzone o di un artista, in realtà spesso si censurino brani, dischi, progetti artistici e addirittura carriere di artisti. Lo si fa in forme negative, cioè non parlandone, oscurandolo, e, al contrario, premiando, portando avanti quelli comodi, funzionali, che non danno fastidio. Le radio e le tv stroncano gli artisti e li costringono di fatto ad adeguarsi. 

Agli artisti che conservano coscienza critica e autentica forza espressiva, i media non danno alcuno spazio. D’altra parte vi è la tendenza di molti artisti “alternativi” di pensare che sia opportuna andare a Sanremo per farsi conoscere e soprattutto per cambiare il Festival. Così di fatto, non solo investono energie in direzioni sbagliate ma legittimano ancor di più i
centri della censura televisiva mentre non si trovano energie ed idee per immaginare percorsi diversi, così finendo inesorabilmente per essere assorbiti dal sistema omologante e svuotati della loro forza musicale, creativa e sociale. Per paradosso, oggi Sanremo cerca artisti originali, fuori dal coro, da usare come spezie nella minestra insipida e fa fatica a trovarli perché nel frattempo quasi tutti gli artisti si sono “sanremizzati” per cercare di sbarcare il lunario

Ma è il pubblico oggi a condizionare maggiormente la creatività musicale. Tanti sono gli artisti che seguono il pubblico anziché essere seguiti dal pubblico. A questo riguardo un ruolo importante hanno assunto i social attraverso i quali, se da un lato si tenta di farsi conoscere, dall’altro si finisce spesso per farsi condizionare. Il condizionamento del pubblico che segue un artista spesso si trasforma in pressante richiesta di un brano piuttosto che di un altro e, in ultima analisi, in una censura. Certo nessun artista è disposto ad ammettere che il proprio pubblico eserciti su di lui una forma di censura ma questo purtroppo avviene e l’espressione artistica ne risente. Spesso gli artisti non ne sono nemmeno consapevoli e tendono all’autocensura credendo di essere liberi. Ma in realtà la censura opera subdolamente a livello primordiale di creatività e quindi tendenzialmente abbiamo pochi casi in cui la censura e la disapprovazione arriva in un momento successivo. In pratica non ce n’è bisogno perché l’artista si è autocensura e crea l’opera che tende a soddisfare le aspettative del pubblico piuttosto che seguire l’autentico flusso creativo. C’è un adattamento artistico censorio in tempo reale consentito da internet. Non è casuale il fatto che attualmente in Italia nella musica ci siano pochi casi di censura, a differenza di quanto succede nel mondo teatrale e televisivo.

Le conseguenze di questo fenomeno sono devastanti perché, a differenza di un tempo, quando la censura era dichiarata, oggi assistiamo ad un abbassamento della capacità di scrivere e rappresentare la realtà in modo critico, dirompente, anticonvenzionale e rivoluzionaria. In pratica il conformismo dilaga. Anche il fenomeno giovanile hip hop importato in Italia mostra una superficialità letteraria che fa sorridere, che al massimo solletica. Certo ci sono molte parolacce nei testi dei rapper ma oggi non sono le parolacce che danno fastidio al potere. Mettete a confronto un cantautore come De Andrè, o una band come i Negazione e un rapper come Clementino o una band come i Negroamaro e subito avrete la sensazione di una netta differenza a tutti i livelli, e soprattutto per quel che ci riguarda, di capacità critica.

Il pubblico poi censura gli artisti anche durante i concerti. Certo non è solo un fatto di oggi. Già negli anni settanta tutti i cantautori venivano contestati. Ma a differenza di quegli anni, gli artisti di oggi si adeguano con molta facilità, quindi ancora una volta si autocensurano, mentre i cantautori di allora andavano in conflitto, accettavano di confrontarsi e a volte prendevano anche le botte. Oggi il pubblico decide persino la scaletta che devi fare. E gli artisti sono accondiscendenti e non dubitano affatto della libertà che accompagna queste concessioni. Gli artisti per piacere al pubblico sono sempre più portati a sondare il terreno musicale dei gusti del pubblico. Si comportano come i politici e gli imprenditori. E alcuni di essi addirittura si convincono che bisogna studiare la teoria dei gusti dei consumatori più che i libri di musica se si vuole fare successo al mondo d’oggi. I talent show ne sono una conferma. 

Persino il mondo dell’associazionismo tende a condizionare i musicisti. Infatti le associazioni più importanti e più grandi spesso si trasformano in centri di potere che dettano le condizioni artistiche di progetti o canzoni degli artisti, su temi che stanno loro a cuore. Se un artista chiede il sostegno ad un’associazione per realizzare un progetto musicale dovrà sottostare alle larvate ingerenze degli associati. E’ come se le associazioni avessero sostituito i discografici. Infatti, oggi un discografico non si sognerebbe più di interferire nel disco di un suo artista mentre un’associazione lo fa a piene mani. Anche per questo, oltre che ragioni più strettamente economiche, si è diffusa la ricerca di fondi attraverso il c.d. “crowdfunding”, dove il progetto viene sostenuto liberamente da chi lo condivide senza che l’artista debba piegarsi ai voleri di qualcuno. 

Di quanto detto finora, nel mio piccolo, posso portare qualche testimonianza diretta. Si tratta di episodi, di fatti in cui personalmente o come Parto delle Nuvole Pesanti, è stata minacciata la libertà di decidere, di creare o di esprimere il proprio pensiero e di promuoverlo. 

Ad esempio di recente abbiamo realizzato un progetto molto impegnativo dal titolo “Terre di Musica – Viaggio tra i beni confiscati alla mafia” e abbiamo chiesto la collaborazione a Libera ma per ottenerla abbiamo dovuto modificare parzialmente il progetto, escludendo alcune tappe e alcuni partner perché non di suo gradimento. E devo dire che questo atteggiamento si è protratto fino alla fine. Le forme in cui questo condizionamento si è realizzato erano invisibili, sotterranee e comunque non dichiarate. Noi le abbiamo scoperte strada facendo tanto che alla fine non le abbiamo accettate ed il risultato è stato che nel momento in cui stavamo per chiudere il libro ed il film, lo staff di Libera ci ha fatto sapere che Don Luigi Ciotti non se la sentiva più di fare la presentazione del libro e la stessa Libera era costretta a ritirare il patrocinio. E ciò è successo dopo due anni che il progetto era stato pubblicizzato con il patrocinio di Libera.

Un altro esempio che posso fare riguarda la canzone Crotone. Si tratta di un brano che abbiamo realizzato con Fabrizio Moro e che affronta il tema dell’inquinamento perpetrato dalle fabbriche della Montecatini che per mezzo secolo hanno riversato rifiuti tossici nei mari e nei terreni della città dove ora sorgono persino le scuole dei bambini molti dei quali purtroppo si ammalano di tumore. Basti pensare che la citta pitagorica ha un’incidenza di tumori del 50% superiore alla media nazionale. Una volta pubblicata la canzone con il videoclip su youtube, sono iniziate ad arrivare minacce ed intimidazioni da ragazzi, sedicenti nostri fan, che attraverso i nostri social ci apostrofano in tutti i modi e ci accusavano di avere deturpato l’immagine di Crotone. “Crotone non si tocca” e “Vi aspettiamo a Crotone” erano le frasi più ricorrenti. Ora è chiaro che non ci siamo piegati e a Crotone ci siamo andati ma loro sotto il palco non c’erano, però si tratta di episodi ricorrenti che possono incidere specie sui giovani o sulle personalità artistiche più fragili. Insomma quando si crea un clima del genere un artista potrebbe essere indotto a pensare “ma chi me lo fa fare” “perché non si sa mai” ed allora scatta l’autocensura.  

Di recente mi è capitato di essere contestato da un gruppo di ragazzi ad un importante festival in provincia di Cosenza reo di avere perso tempo a raccontare le ragioni sociali di una canzone. Mi hanno urlato con tono minaccioso “Basta, se vogliamo sentire parlare ci vediamo il telegiornale. Tu devi cantare e basta”. E stiamo parlando di fan del Parto e non di ragazzi ostili.

Durante un concerto di Varese fatto per presentare Musica contro le Mafie, per avere ironizzato sui carabinieri che ci chiedevano di chiudere il concerto perché era mezzanotte, siamo stati esclusi da ogni ulteriori partecipazione agli eventi di presentazione del progetto “Musica contro le Mafie”. Il nostro unico torto è stato quello di avere contestato una decisione in modo ironico, diciamo in modo politicamente scorretto, ma a ben ragione perché non ci sembrava giusto suonare solo un quarto d’ora anziché i 45 minuti concordati dopo aver sopportato pioggia, fango, freddo e ritardi accumulati dall’amatoriale organizzazione dell’evento, e per giunta non eravamo nemmeno pagati, ad eccezione di un magro rimborso spese.

Ma andando un po’ indietro nel tempo, ricordo che al Concertone del Primo Maggio del 1999, venimmo redarguiti per il fatto che ci eravamo presentati vestiti da militari per protestare contro il governo italiano per la decisione di intervenire nella guerra in ex – Jugoslavia e Kossovo. Seguirono anni di embargo nei nostri confronti. 

Però la cosa che mi ha fatto rimanere più male è il fatto di non aver ricevuto nessuna solidarietà o condivisione, come si dice oggi, dagli altri artisti, quando abbiamo realizzato il progetto Terre di Musica – Viaggio tra i Beni Confiscati alla Mafia. Nessuno che ci abbia detto o scritto parole di apprezzamento, o solo un saluto per non farci sentire soli. Invece siamo stati circondati dal silenzio assoluto, salvo alcuni casi come Carlo Lucarelli, Claudio Lolli, Fabrizio Moro, Alfonso De Pietro, tutti artisti che a loro volta sono socialmente impegnati.

Potrei fare tanti altri piccoli esempi dei modi e delle forme in cui si esercita la censura e l’autocensura ma in conclusione quello che mi preme sottolineare é il vento di rinnovata autocensura che sta arrivando con la lotta al c.d. terrorismo islamico. Siamo un po’ tutti spaventati, o meglio stanno cercando di spaventarci, e in nome di questa battaglia siamo disposti ad autolimitare le nostre idee e i nostri spazi di libertà artistiche. Pongo una domanda: quale artista oggi e dico oggi avrebbe il coraggio di scrivere una canzone controcorrente? 

SALVATORE DE SIENA

Dialogo della Corruzione - Antonella Barina

Complimenti Mio Caro
addetto alle public relations
Che stile
Grazie a lei in tanti anni
dei morti per cancro
non c’è lapide
numero
nome
nè parte civile

Non è mio tutto il merito
signor Direttore
mi creda
Un lavoro ben fatto
non faccia il modesto
ecco qui l’incentivo

La ringrazio Dottore
le spese son tante
non le voglio mentire
Metta in tasca Mio Caro
lei sa farsi valere
si é fatto sentire

Cosa vuole Dottore
alla fine
il buon senso prevale

Non c’è dubbio Mio Caro
domani
vedremo il giornale

A proposito Signor Direttore
con quei morti noi
non ci abbiamo a che fare

Mio Caro che dice
lei é stanco
le consiglio il riposo

Mi perdoni Signor Direttore
mi creda
non volevo indagare

La saluto Mio Caro
raccomando il relax
si gusti il Natale
Signorina
mi chiami Giobatta
Mio Caro è un relais da cambiare

(Antonella Barina, Madre Marghera, poesie 1967-1997)
UNA COSCIENZA “DI CLASSE” INEDITA
A Marilisa Insani
sorella giovane non dimenticata
e a Carla Beccaria Insani
maestra di scrittura e libertà

In “Madre Marghera” ho raccolto i frammenti di me e del luogo che più di ogni altro mi è matrice, al di là delle mie fughe in giro per il mondo e di quella più evidente e illusoria, che oggi mi fa risiedere a Venezia. Nel riappropriarmene, mi libero di un ingombrante rimosso, peso difficile da portare, tradottosi negli anni in eccesso di coscienza.
Ricercando una logica, una mia logica, nelle impressioni accumulate negli anni, ho cercato di ricostruire – avendo titolo per farlo, di abitante della zona industriale – la prospettiva di chi, senza mai essersene andato davvero, ritorna. Ma il percorso, in questa fase iniziale, è
piuttosto di chi ha vissuto per anni al di fuori dei perimetri delle fabbriche, al cui interno soltanto ora, ancora eccezionalmente, è dato accesso. (…)
Che vi sia dolore fino in fondo è mio privilegio, perché questo accresce la profondità del procedimento. In tutto questo tempo ho sperimentato un’autoanalisi in chiave postindustraile, un esercizio di sopravvivenza in ambiente censorio, un inferno di specchi in cui ho rischiato di perdermi.
Ho lavorato partendo da una coscienza “di classe” inedita: quella dell’abitante che dalla strada osserva le fabbriche, non essendo concesso ai residenti varcare i recinti industriali, così ho finito per amare la strada più di qualunque altra cosa. Per leggere l’esclusione come titolo di merito. Eppure: non vi fosse stata Marghera sarei mai diventata viaggiatrice?
Nell’assoluta deprivazione, infatti, fioriscono risorse insospettate: ciò che auguro anche al territorio di cui parlo. Con l’atto di pubblicazione mi libero anche di buona parte del rimosso che, come giornalista, non ho potuto testimoniare. Rilascio le scorie del processo di liberazione, nella convinzione che non stia più a me riciclarle, né aiutare altri a farlo. Poi le riprendo per dissolverle, definitivamente, in primo luogo dentro di me.

(Antonella Barina, in Madre Marghera, 1997)

Il Re e gli Uccelli - Reda Zine

Non si può vietare agli uccelli di cantare. Nè agli uccelli del buon augurio, ancora meno a quelli del malaugurio. Nel processo di disumanizzazione degli stranieri si dimentica che essi sono portatori di kultura. Di esperienza e di ricchezza. Ma a qualcuno dà fastidio questo scambio di coscienze. La musica, il canto nella forma originale di soffio e respiro sono quasi impossibili da censurare. Passano con il latte della madre. Ci hanno provato i mercanti di schiavi e i tiranni attraverso i secoli e fino ai giorni d’oggi e purtroppo ci proveranno domani ancora. Perché fa così paura una semplice filastrocca, una melodia? 
Ne “Le Roi et l’Oiseau”, cartone animato, capolavoro di Paul Grumault e Jacques Prevet (1980), il narratore è l’uccello che introduce la storia con bellissime musiche di Wojciech Kiilar. Comincia raccontando che il Re del magnifico reame nel quale si svolgerà la storia, capitata a lui “e a tanti altri allo stesso tempo”, gli aveva amazzato la moglie in una battuta di caccia reale. La musica accompagna la narrazione per chiamare emozioni di gioia, di paura e di rabbia. Abusi e sfizi del potere reale vengono abilmente messi in luce e derisi dal canto irriverente della figura libera e ribelle dell’uccello. 
I tiranni muoiono, le canzoni sopravvivono.
Ho vissuto sulla mia pelle le ingiustizie della censura a partire dal 2003. I primi gruppi Rock, Hard, Heavy, Trash, Punk, Grunge, Core, Doom, Black, praticamente tutta la scena dell’Extreme Underground che potevi trovare a Casablanca nei anni ’90 formò un fronte, ufficialmente nel 2003, quando lo Stato iniziò a imprigionare i musicisti dai “gusti estremi” con accuse gravissime di “proselitismo antislamico”. Un processo iniquo e kafkiano quello dei “14 satanisti” che di satanista avevano solo il look e la stranezza dell’impatto estetico rispetto ai canoni di un apparato poliziesco bigotto che prova ad appiattire e soffocare le differenze. La risposta della società civile è stata esemplare. Attivisti, giovani, famiglie con i loro bambini hanno manifestato davanti al tribunale per chiedere giustizia per i “giovani musicisti”. Era l’inizio del web 2.0 e io, impotente da Parigi, con altri amici avviai una raccolta di firme e articoli per allertare l’opinione pubblica internazionale sulla sorte dei nostri amici che erano nel buio delle celle da ormai 40 giorni. La pressione ebbe frutti. E il giorno in cui il quotidiano fancese Le Monde decise finalmente di far uscire un articolo su “l’affaire” fu il penultimo dell’incarcerazione della mia ballotta. Dopo quest’episodio ho conosciuto altre realtà in giro per il mondo che si occupano di censura nel mondo della msica. Una di loro è una Ong danese, Freemuse, che lavora sulla difesa del diritto di espressione degli artisti. Grazie a queste realtà si è creata una vasta rete internazionale per fare da cassa alle campagne anticensura di tale artista o altro. Sulla loro scia, in Norveglia alcuni musicisti hanno di recente creato un collettivo, SafeMuse, per aprire un programma di accoglienza per artisti in esilio.
I Voodoo Sound Club, la mia band bolognese, è stata invitata al Music Freedom Day 2016 organizzato, proprio dalle due Ong, a Harstad, in Norvegia. Insieme a una sessione di fiati locale e un collettivo di cantanti, tra cui un palestinese, un siriano e una pioniera del rap iraniano, SalomeMC, andremo a dare volto all’anteprima dello spettacolo “From Zombie to revolutionarys”. Una produzione collaborativa tra varie voci, che in maggioranza provengono da zone liberticide, e il nostro gruppo bolognese che pensa la musica come impegno sociale (promuove iniziative come il Laboratorio Sociale Afrobeat).
Quando si lavora con musicisti che subiscono i fulmini del potere, spesso le produzioni discografiche hanno tempi biblici perché condizionate da strategie di sopravvivenza. Tanti eventi si cancellano perché tale musicista non ha avuto il visto. La libertà di circolazione! Vai a dirlo all’agenzia Frontex o al responsabile marketing di radio supermercato. La musica noi la facciamo uscire per creare sogni, legami. Raccontare le storie che nessuno vuole più farci raccontare. La carta dei diritti dei Musicisti, firmata dal collettivo del Music Freedom Day Bologna / Italia, 2 anni fa, ne è una dimostrazione concreta.  
Dedico questa nostra versione dell’inno “Zombie” del guerriero musicale Fela Kuti, alla quale ha dato un apporto suo figlio Seun Kuti, alle bellissime anime che stanno ogni anno dietro al  Freedom Music Day in Italia, perché odiano l’indifferenza, la mediocrità e l’ingiustizia. Con metodo, ciascuna nel suo campo, attente alle realtà della nostra città e aperte sul nostro Mondo.
p.s. la produzione collettiva “Zombie” by Voodoo Sound Club è disponibile in formato audio sul sito di Freemuse.org. Il video con sottotitoli in inglese è invece disponbile su Youtube.

REDA ZINE  @afnorock

Glielo dite voi? - Chiara Stefani

Libertà di guidare un’auto di lusso, libertà di scegliere fra una vasta gamma di prodotti, libertà di pagare in comode rate...
E naturalmente PDL, che si distingue da PD proprio nella L di Libertà...
Ma dov’è finita la nostra cara vecchia libertà, quella del ‘fiore del partigiano’?
E’ prigioniera della censura esplicita ed implicita che colpisce tutte le forme di libertà individuali e collettive.
Non siamo più libere/i di scegliere i nostri valori né i principi con cui praticarli, di abitare i nostri stili di vita, né tanto meno di valorizzare le nostre diversità-specificità per arricchirci e cooperare...
In Italia non serve più il manganello perchè la società è diventata o-vilmente un efficientissimo sistema di controllo autocensurante ed emarginativo nei confronti di chi non può/vuole aderire ai rigidi modelli omologanti imposti dal regime di padroni vecchi e nuovi.
L’Italia, un folcloristico insaccato di colonie, i cui sudditi nel corso dei secoli hanno traslocato facilmente ruolo da servi della gleba in servi del globo. L’ipocrisia dell’Italia unita non ci ha resi un popolo, ma un’accozzaglia di bulli e nulli, viventi in demodisgrazia e morituri in P-dux aeterna. Glielo dite voi al partigiano (quello del fiore) che è morto invano?
Ecco che la censura, teleinoculata in dosi quotidiane, trova nel famoso ‘italiano medio’ il soggetto ideale da tabula-rasare asportando facilmente pensiero critico e libero arbitrio:
Il SESSISMO trionfa: servili cenerentole in grembiule scodellano alla prole (marito+figli), quando non giacciono discinte su cofani di lusso alitando costosi effluvi. Anche il RAZZISMO raggiunge il picco massimo: tutti bianchi i mulini, neri solo se olimpionici campioni. Gli STRANIERI, infatti, sono ladri di lavoro che si fingono profughi suicidandosi in mare apposta per colpevolizzarci. Il MILITARISMO, spiacevole ma necessario, il PACIFISMO, pochi ingenui illusi utopisti. L’ECOLOGIA, fanatici ostili al progresso e ostacolo al futuro. TERRORISTI anche i popoli ribelli ai dittatori / invasori, la TORTURA è preventiva, nelle MISSIONI DI PACE NATObombardiamo solo obiettivi sensibili (scuole e ospedali). Largo al REVISIONISMO STORICO, ‘quei bravi ragazzi’ di Salò e di Guantanamo ingiustamente perseguitati, e sfruttiamo l’Olocausto nazista come scusa per massacrare i Palestinesi. La SOLIDARIETA’, roba da centri anziani, e la TOLLERANZA ex vivi-e-lascia-vivere ora mors-tua-vita-mea. Il CARCERE, per rinchiudere chi delinque troppo poco; ai grandi criminali invece affidiamo EXPOrcate, e i più corrotti nominiamoli ONUrevoli ed EUnorevoli. Del resto è giusto che i RICCHI godano di privilegi e immunità-impunità, mentre i POVERI sporcano e puzzano quindi non si meritano niente. Le MULTINAZIONALI sono mecenati del lavoro, soprattutto per i giovani da 0 a 6 anni. La RELIGIONE, ex-oppio dei popoli, oggi metanfetamina dei nuovi etnomassacri. L’oppio adesso è il CALCIO: ferventi tifosi a Messa nei bar e negli stadi e ultrà che guerrigliano da veri rivoluzionari. La COSCIENZA ormai obsoleta appartiene solo ai romanzi d’appendice, la SCIENZA invece è la voce di Dio che ci parla attraverso le case farmaceutiche e le industrie belliche. La TECNOLOGIA non ci spia, ci protegge dall’alto. L’ISTRUZIONE addestra soldatini a barrare caselline con crocette, tanto vale nutrirli a Mein Kampf a memoria in lingua originale e sull’attenti. La PSICHIATRIA? facciamo il TSO a tutti i bambini così da grandi non soffrono, e sterilizziamo tutti i disabili così non mettono al mondo altri infelici. Eccetera eccetera.
Dall’ignoranza alla paura il passo è breve, e la relazione con l’altro diventa nemicale, giustificando la prevaricazione e quotidianizzando la violenza.
Ma il più censurato in Italia è certo il corpo femminile. Strappato alla padella mariana delle grinfie vaticane, ora è anoressica vestale brasata sull’altare di un modello malato di perversa perfezione, pena l’esclusione dalla telenovela. Allarme autoabuso! Mummie imbalsamate che aborrono la crescita si brutalizzano per immolarsi a bambole-bambine, recordiste mondiali di obbedienza da sostanze legalmente ad uopo (psicofarmaci e gioco d’azzardo).
Ma siamo uomini (/donne) o utenti? (i caporali ormai sono solo mercenari...).
La strada non è più nostra, la piazza non è più nostra, la città è diventata una trappola di norme punitive che ti aspettano in agguato ad ogni varco... Creare cultura in città è diventata pura carboneria, in questa Bologna che prima era perla di civiltà ora solo un triste quartiere-dormitorio.
Non è paradossale soggiacere inermi al ‘divide et impera’, invece di rivendicare da persone qualità di vita e relazione e come artiste/i dignità e rispetto, spettanti di diritto?
Bologna: politiche culturali e giovanili. Dopo Lorusso, i sensi di colpa zangheriani per le malefatte di Cossiga&Co. lasciano spazio civico a progetti autogestiti di produzione artistica e sociale aggregazione; poi, dagli anni ’90, come se niente fosse, l’Amministrazione da Vitali a Cofferati si rimangia tutte le promesse e dichiara guerra ai giovani (e loro simpatizzanti) sbarrando la città con ordinanze capestro mirate a decimare tutte le Ong no profit che promuovono musica, politica e cultura. Risposta? Qualche melliflua lagna, e poi silenzio.
Cari ‘colleghi’, care ‘colleghe’, la colpa è soprattutto nostra!
(tuonando:) Dove sono i grandi movimenti umanistici? Dove le scuole maestre che ispirato le grandi rotazioni – rivoluzioni - traslazioni di pensiero – parola – opera – missione?
Oggi intellettuali e artiste/e si guardano bene dall’occuparsi della società (come se non facenti parte), barricate/i in tumuli di muto e passivo solipsismo, intente/i come miopi entomologi a svermare l’orticello, senza accorgersi di tirarsi la zappa sui piedi seminando deserto su terra bruciata.
Ecco perchè non cresce più il fiore del partigiano.

terapia consigliata: http://ilmostro-ass.blogspot.it 

CHIARA STEFANI. artemaieuta

mercoledì 24 febbraio 2016

Lettera aperta ai futuri liberi musicisti - Guglielmo Pagnozzi

Amiche e amici musicisti, 
è ora che ci svegliamo dal torpore e dall'annichilimento generale cui ci ha portato il lungo periodo di dominio della musica commerciale sulla nostra vita artistica. 
Quanti musicisti di talento conosciamo che si ritrovano a suonare per cantanti di successo solo per sbarcare il lunario, e quanti, per questo motivo, abbandonano la propria istintiva e naturale ricerca artistica, la propria personalissima e preziosissima via all'Arte? Quanti di noi hanno dovuto subire l'arroganza delle grandi produzioni, la mortificazione della propria generosità creativa in nome delle scelte di "produttori" e "artisti" molto spesso incompetenti e di basso profilo professionale? E quanti compagni di strada si sono persi, sedotti dalla mitica illusione che solo il successo commerciale giustifichi e sancisca il valore del percorso artistico di un musicista? 
La mercificazione della musica ci rende ingranaggi di un sistema piramidale e verticistico che arricchisce i soliti immancabili pochi e noti e rende schiavi tutti gli altri, tutti quelli che non hanno il nome in cartellone. 
Ebbene questo sistema, il cartellone, in verità si fonda proprio sulle competenze e la cultura di tutti quei musicisti che formano le band con cui i sedicenti "artisti" portano in giro la loro musica e fanno i loro dischi; musica e dischi ridotti ormai a mero genere di consumo industriale, semplici prodotti di mercato, non più libera espressione della sensibilità e della cultura umane ma cloni impacchettati pronti per gli scaffali del “supermercato dell’arte". 
E se da una parte potremmo definirci una classe sociale, in quanto lavoriamo in un unico settore e produciamo ricchezza (per di più non solo materiale) dall'altra, con buona pace della nostra dignità di classe, abbiamo già visto troppi ingegni rubati al libero sviluppo della cultura e dell’arte, obbligati ad ingoiare "rospi" musicali fino a perdere le tracce della loro vita artistica e professionale libera ed indipendente, della loro vera intima missione, del loro sogno più puro. 
Il danaro con cui viene comprata la nostra creatività è come un guinzaglio, che si allunga fino a ché il musicista addomesticato è autorizzato ad esplorare nuovi e più intimi territori, ma non un passo in più. 
L'omologazione dello stile e del gusto, pratica usata correntemente nella musica commerciale per creare un modello di consumatore sempre più controllabile ed indirizzabile a comportamenti collettivi omogenei (cioè un essere umano che non ha vera libertà di scelta, anche se crede di averla, ma è obbligato a scegliere tra una selezione che qualcun’altro ha preparato per lui) finisce col corrompere anche gli spiriti musicali più forti che con il tempo diventano inevitabilmente, e spesso inconsapevolmente, complici del sistema stesso che li rende schiavi; a volte essi stessi diventano i primi sostenitori dei loro sfruttatori e del modello musicale da essi promulgato, operando semplificazioni del loro gusto (costruito in anni di faticosi studi, passione ed integrità intellettuale) o elaborando sofismi sulla presunta qualità dello stile delle opere commerciali; e così cercano di convincere sé stessi e gli altri che non c’è nulla di male nella loro adesione a progetti di basso profilo artistico e, insisto, omologati dal punto di vista dello stile, ma remunerativi da quello economico. 
Chi entra nel meccanismo ha sì il vantaggio di godere di una minima stabilità economica (peraltro senza nessuna garanzia di continuità né di pensione!) ma la paga al prezzo della
libertà della propria anima creativa; e per di più, lasciatemi essere maligno, diventa un collaborazionista, un commesso, un kapò del Mercato e del Capitale. 
Chi non entra nel giro è condannato ad una vita da fame o poco ci manca; dai più è considerato a malapena un professionista serio, a differenza di quelli che si vedono in televisione o che hanno suonato con Tizio o Caio; molto spesso, dopo anni di ardua resistenza creativa, diviene vittima di disillusione, depressione e sfiducia nelle proprie scelte che finiscono col logorare la parte creativa che aveva così voluto difendere. 
In ogni caso chi ci rimette è il musicista, no di certo il Mercato né i suoi pupazzi ammaestrati. 
Per questo vi dico che la commercializzazione industriale è un flagello per la musica e per i musicisti, e finché questo mostruoso sistema non sarà riformato - ahimè sarebbe bello vederlo crollare ma forse l’umanità non è ancora pronta a togliersi dal collo il seducente giogo del Mercato - nessun musicista sarà libero di espletare veramente la sua arte, e sarà sempre in qualche modo censurato, privato della libertà di compiere la funzione umana che lo rende armoniosamente utile alla società. 
Ma se vogliamo che questo scenario cambi, ancor prima dobbiamo cambiare il nostro stesso atteggiamento: finiamola una buona volta con il vittimismo! Unione e solidarietà diventino le nostre parole d’ordine! Non stiamo più a lagnarci in attesa di un assistenzialismo che non arriverà mai; e nulla arriverà di buono per noi se non faremo sentire la nostra voce forte, con ogni mezzo a nostra disposizione. 
Non è difficile, basta decidersi e partire. 
Io farei così: decidiamo insieme una direzione, una linea di condotta e poi le mettiamo in pratica, vivendole nell’esistenza quotidiana. 
Qualche esempio? parlare e diffondere materiale di sensibilizzazione durante i nostri concerti, alle prove e in qualunque altro momento delle nostre attività pubbliche; provare a coordinarci e creare un vero sindacato dei musicisti, che parta dal basso e non da chi vuole difendere posizioni acquisite o categorie già favorite; sognare e  volere fortemente questo cambiamento, questa rivoluzione, come una preghiera e pure mettere il messaggio nelle nostre opere, trasfigurarlo in suoni e parole efficaci, che lascino un segno; e poi studiare e studiare e studiare, non solo musica: storia, filosofia, politica, letteratura oltre a tutti gli altri linguaggi di espressione artistica visiva,coreutica, ecc…  diventare artisti a tutto tondo; fondare ed animare riviste, blog, collettivi, centri culturali; e poi fare volontariato, donare e condividere i nostri saperi, insegnando gratuitamente a chi non se lo può permettere; insomma fare tutto ciò che serve per prendere consapevolezza che siamo una classe. 
Coscienza di classe. Coscienza di classe. Coscienza di classe. 
Senza coscienza di classe non c’è solidarietà, senza solidarietà non c’è unità, senza unità non c’è forza, senza forza non c’è cambiamento, senza cambiamento non c'è libertà. 
Soli siamo deboli, tanti siamo forti, insieme siamo liberi. 
Ce lo insegna la musica stessa.

Bologna, 9/2/2016 
GUGLIELMO PAGNOZZI

Come fanno i giovani a capire le cosa senza il senso critico???? - Cico cantante dei MaMa AFR!KA


Arte e libertà - Serenella Gatti Linares

“Libertà” non è una parola che si possa usare solo per la Musica. Passa da un ambito all’altro dell’Arte, perché in essa tutto è collegato, senza limiti e barriere. “Libertà” ha la stessa radice di “liber”, libro. Solo tramite la Cultura può cambiare la mentalità. Da qui il ruolo centrale della scuola, dove si impara lo spirito critico. Ma se alla scuola vengono tolti i finanziamenti e gli insegnanti non possono usare le capacità critiche, come possono insegnarle ad altri?
“E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore”, scriveva Salvatore Quasimodo nella poesia, secondo me, insuperabile contro la censura:”Alle fronde dei salici”. E Paul Eluard cantava in “Libertà”: “Io scrivo il tuo nome/ E per la forza di una parola/ Io ricomincio la mia vita/ Sono nato per conoscerti”. Desidero fare solo qualche recentissimo esempio emblematico. In Afghanistan è illegale lavorare come cantante solista senza il permesso del governo. Sonita Alizadeh è una rapper che è riuscita a registrare segretamente le sue canzoni contro la violenza sulle donne, le spose bambine e il lavoro minorile. Cose che non potrebbe neanche nominare, figuriamoci denunciare. Al poeta palestinese Ashraf Fayadh è stata inflitta in Arabia Saudita la condanna a ottocento frustate e otto anni di prigione, ma in prima istanza era stato condannato a morte per “reato di poesia”. Le frustate saranno date in sedici occasioni diverse e il poeta dovrà dichiarare pubblicamente di essere pentito dei suoi scritti blasfemi. Le giornaliste curde di Jinha News sono state arrestate e bloccate nel loro lavoro. In Tunisia è stato appena firmato un appello contro la disinformazione e la manipolazione delle notizie nel paese. Mi fermo qui per un eccesso di orrore e nausea. Secondo me, la vita dovrebbe essere una continua ricerca della felicità.
 La Musica contribuisce alla libertà, perché è linguaggio universale di pace, e non può esprimersi senza di essa. Ma ancor prima il vocabolo “libertà” si collega, a mio parere, al Movimento di Liberazione della Donna, la più grande rivoluzione sociale del Novecento. Non ci sarà autentica libertà nel mondo, finché non esisterà assoluta parità fra uomo e donna. E non alludo solo alle norme giuridiche, ma anche a quelle sociali sotterranee, riguardanti, ad esempio, i concetti di Spazio e di Tempo. Oggi si assiste addirittura ad un ritorno all’indietro. Basti pensare alle immagini stereotipate dei mass-media o all’odioso femminicidio. Come può esserci libertà totale di censure nella Musica e nelle altre Arti se più della metà del genere umano vive ancora in parte sottomessa?

Ho notato che, ad esempio, esiste del razzismo nei confronti delle “Ragazze del Rock”, che non vengono trattate paritariamente dai colleghi maschi e dal mercato discografico. Per quanto riguarda la Letteratura, nella Storia gli scrittori sono sempre stati osteggiati, torturati, uccisi, in alcuni regimi totalitari, perché considerati sovversivi. Nel mondo editoriale italiano d’oggi si assiste a ciò che accade anche in campo musicale: viene pubblicato soprattutto ciò che è commerciale. Nelle Antologie scolastiche è ancora sparuto il numero delle scrittrici donne rispetto a quello degli uomini. Per quanto riguarda le nuove tecnologie, continuo a stupirmi di fronte alle loro infinite possibilità. Usate in particolare dai giovani, sono fondamentali per diffondere le notizie, per difendere la pace e per lottare contro le censure in ogni campo. 
Come ha dimostrato Amnesty International, esiste un peggioramento generale dei diritti delle persone nel mondo. Secondo Reporter Senza Frontiere, l’Italia è precipitata nella classifica mondiale sulla libertà d’informazione. La situazione è molto peggiorata per i giornalisti, con attacchi fisici e morali da parte di politici corrotti, mafie e organizzazioni criminali. Mentre l’articolo 21 della nostra Costituzione parla di libertà di stampa, attualmente infangata. Basta guardarsi intorno per notare un progressivo imbarbarimento della nostra società. Nonostante ciò, lo scrittore, l’artista non può che continuare a scrivere, a creare, con passione, superati i momenti di scoramento. E unirsi in condivisione con coloro che la pensano allo stesso modo. Le parole e la Musica servono anche per combattere la guerra, a patto che siano del tutto libere.

SERENELLA GATTI LINARES

Esprimere liberamente la nostra tensione - Modi

Sono stato invitato più di una volta a partecipare al Music Freedom Day, queste giornate di dibattito e musica sulla censura nell'ambito artistico, e soprattutto CONTRO la censura in ambito artistico ed in generale. Quindi il tema da condividere è quello della libertà di espressione. Sono molto felice di aver avuto la possibilità di dare il mio piccolo contributo a questo dibattito, un raro caso in cui la mia di libera espressione è stata richiesta anziché sgradita! Io vengo fin da molto giovane (da quando avevo 15 anni) dall'ambiente della controcultura punk che fa un po’ da filo rosso tra gli spazi sociali, le idee anarchiche anti-militariste, ed i più squallidi bar di periferia. Oltre a questo sono un musicista: suono il basso con un mio stile e canto (pure un po’ stonato), e scrivo delle parole.
 Nelle mia esperienza la libertà di espressione ha sempre comportato uno sforzo, una lotta,
un conflitto. Per questo più che vederla come una libertà che ci si deve aspettare diciamo "per gentile concessione" la mia testa la vede invece molto legata ad una tensione esistenziale. In fondo esprimersi in sè comporta una tensione, dall'interno verso l'esterno. 
Quando ero cinno, come si dice a Bologna, per esprimere ciò che non mi andava ho deciso di entrare in conflitto, anche nel senso di auto-emarginarmi da certe dinamiche, prima coi miei, poi in parrocchia, poi a scuola, poi a lavoro ecc...il mio esprimermi ha richiesto un costo e tante scelte, ma dentro di me sapevo come so oggi che era necessario farlo, proprio nel senso che era inevitabile, tipo "libertà o morte!". A livello collettivo questo tipo di tensione è quasi la stessa che si può trovare in uno spazio occupato: quelle idee, quei suoni, quei percorsi da quelle mura sgretolate vogliono uscire e comunicare alla città. 
Si deve essere disposti ad un conflitto per questo, ma anche qui è inevitabile...perchè per esistere si ha bisogno di uno spazio. Come il seme ha bisogno della terra.
Il contributo che tengo di più a portare (perchè non riguarda solo me ma tanti e tante simili a me) è proprio questo: considerare la repressione di uno spazio come una censura collettiva.
Gli sgomberi, le cariche, le porte e le finestre murate di spazi dove l'obiettivo non è il profitto e dove la S.I.A. E. verrebbe accolta con grasse risate, questa E' CENSURA. Anche le lettere di Equitalia a spazi di aggregazione come può essere una sala prove nel quartiere S. Donato E' CENSURA. La Procura E' CENSURA!
A chi esercita il potere di reprimere non danno fastidio singoli artisti con visioni provocatorie, tanto se diventano abbastanza popolari possono al limite essere riassorbiti con un contratto discografico. Con le rivolte, a volte, si sono vendute tante copie. La vera Libertà di espressione viene censurata piuttosto quando offre una effettiva libertà di cambiamento, dei costumi, dei sensi, della vita insomma. L'autogestione dell'espressione da davvero fastidio, anche nella musica. L'autogestione di sè da davvero fastidio.
 Anche a Bologna più che mai.
 E allora cosa si può fare contro la censura?
 Per tendere alla nostra libertà d'espressione non serve altro che esprimere liberamente la nostra tensione.

MODI

La mia vita è una performance! - Antonietta Laterza

Non ricordo di avere mai camminato, ho preso la poliomielite a 17 mesi e dal quel momento io e la carrozzina abbiamo viaggiato insieme in un unico modulo-giocattolo senza passare mai inosservati in qualunque situazione della vita. 
Nel bene e nel male ero al centro dell’attenzione e questo mi ha fatto sentire all’interno di un palcoscenico virtuale dove mi vedevo dall’esterno, io, interpretare me stessa, ovvero alla ricerca di una rappresentazione di me  che mi rendesse giustizia.
 Ho sempre cantato, da piccola mio padre mi sedeva su una seggiolina sul tavolo e quando si radunavano i parenti  mi faceva esibire. A scuola la maestra mi faceva cantare in classe. Non avevo modelli di riferimento canori reali, solo l’immagine della sirenetta che con la sua coda esprimeva bene la mia condizione psicologica, la ferita costitutiva della mia personalità. 
Quando scendeva la Madonna di S. Luca ricordo che mia madre mi portava in processione e alcuni fedeli dalle braccia robuste mi sollevavano su con la carrozzina al di sopra di tutti al punto che quasi guardavo negli occhi la Madonna. Questo mi dava un senso di “altitudine” e di onnipotenza e mi calava in una dimensione performativa mio malgrado. 
 La mia vita è stata una sequenza di gessi e operazioni chirurgiche intervallata da periodi di “normalità”: il mio corpo nudo era oggetto di osservazione da parte dei medici con relativo giudizio e intervento plastico-funzionale. Ausili ortopedici, tutori, stampelle, carrozzine… ero una sorta d’innesto tra l’immagine onirica che mi ero fatta della sirena e la proiezione della donna bionica-cyborg. 
La forma e la funzione del mio  corpo mi proiettavano in un immaginario erotico femminile tutto da costruire e da inventare, proprio come una performance. Il mio obiettivo era dimostrare che anch’io potevo far parte dell’antico gioco della seduzione sociale ribaltandone i canoni e i paradigmi. 
A 14 anni ho subito un trapianto, un intervento chirurgico alla colonna vertebrale, che mi ha costretto a letto per sei mesi con un gesso che partiva dai fianchi fino ad arrivare sotto il mento; ricevevo un sacco di amici e casa mia era diventata una specie di salotto artistico-culturale. Poi per altri sei mesi ho portato il gesso dai fianchi fin sotto le ascelle e finalmente potevo stare seduta fino a quando, come una farfalla uscita dal bozzolo, la mia vita a 16 anni ha preso un nuovo corso. 
Durante l’adolescenza invece che nascondere il corpo lo enfatizzavo tingendo i capelli di biondo, portando profonde scollature e vestiti trasgressivi che nel contesto della carrozzina facevano di me un personaggio sicuramente molto appariscente, una sorta di installazione mobile. 
Ero abituata alla sovraesposizione e trasportai anche nella vita-politico-femminista questa comunicazione polisemantica: ragazza vistosa in carrozzina, suona la chitarra, canta con la voce da nera canzoni  femministe composte da lei medesima, dai testi provocatori. 
Il tutto sintetizzato in 5 parole: attrazione, repulsione, paura, coraggio, sfida. 
Con il disco “Alle sorelle ritrovate” del 1975, una sorta di manifesto femminista, cominciai a cantare nelle piazze, nei teatri, nei circoli culturali, a Roma al teatro della Maddalena invitata da Dacia Maraini, e sui palchi dei concerti rock. 
Stanca di interpretare il personaggio della femminista radicale e di cantare canzoni impegnate e politicizzate, nel 1981 ho costituito con Antonia & Laroche (duo di cui faceva parte Antonia Babini prima donna dj in Italia), con il fotografo argentino Nicolas Genovese e altri artisti bolognesi, il gruppo di ispirazione dada “Plastico Amore”. 
Il gruppo creò una fanzine e una serie di performances composte da proiezioni di materiale visivo originale (diapositive, foto scattate da noi), musica elettronica eseguita dal vivo e azione teatrale. A quel periodo risalgono due miei demotape dal titolo Italian Slip e Make Up. 
Lavoravo sulla mia immagine e registravo le mie composizioni con una delle prime batterie elettroniche in commercio, la Roland, un sintetizzatore monofonico Yamaha, e una chitarra elettrica,  registrando su un registratore Teac a 4 tracce incidevo le mie nuove canzoni. 
È stato un periodo di ricerca importantissimo perché attraverso l’elettronica ho espresso tutte le mie potenzialità creative e innovative in piena libertà espressiva. Ma le case discografiche, siamo nel 1983, dicevano che non ero commerciale soprattutto per la mia immagine di donna disabile. Venivo quindi censurata proprio per questa mia immagine di donna non adeguata agli standar della cantante tipica! 
Tutto ciò non mi ha però fermata e nel 1990, dopo varie peripezie, ho cantato la sigla di chiusura del Cantagiro per 10 settimane in giro per l’Italia con altri cantanti famosi.
 Sono stata sicuramente la prima donna cantautrice disabile italiana  a comparire ripetutamente in televisione sui canali della RAI e sulle reti private; a fare concerti e tournèe in Francia, Germania, Londra, Copenaghen, oltre che nel territorio nazionale.
 E, purtroppo, fino ad ora l’unica!
In un contesto di rappresentazione della vita e della società, non in quanto “società dello spettacolo” ma in quanto “spettacolo della società”, io ne ero esclusa perché non rientravo nei paradigmi dei modelli televisivi e discografici. Ma quando feci il disco sulla diversità, “Donne a Marrakech” del 1992, allora venni contattata e invitata nelle tivù pubbliche e private proprio per rappresentare l’artista disabile come esempio di valore. In ogni caso non venivo mai semplicemente rappresentata come un’artista uguale gli altri, ma proposta in quanto bandiera di inclusione sociale.     
Proprio per questo motivo venivo esclusa dai format televisivi come varietà, festival musicali quali Sanremo, quando partecipando Pier Angelo Bertoli sostenuto da Caterina Caselli, Aragozzini disse “Due carrozzine sono troppe”.
Insomma, mi includevano in certi programmi giornalistici di denuncia, tv del dolore e quant’altro, ma mi escludevano per la mia identità autonoma di artista,  quindi venivo usata e strumentalizzata (la Fonit Cetra mi diceva “non ci sono trasmissioni adatte a te”), vittima di una grande, ipocrita censura.
 Nella “società dello spettacolo” io ero spettatrice quando sul palco ci stavano le persone normali, ma nella vita, nella strada, -io ero sul palco- e la gente normale diventava il pubblico. 
Quando sono andata in televisione e sui media, ero  sul palco solo per la mia specificità di eccezione che conferma la regola; avvertivo un senso di sdoppiamento e di multipla identità, della serie: io mi guardo allo specchio e lo specchio rappresentato dai miei occhi  guarda me nello specchio…  in una sorta di détournement identitario e semantico. Non riuscivo a sfondare la quarta parete, quella del metaspettacolo: io, lo spettacolo, dentro lo spettacolo rimanevo prigioniera e ostaggio.
 Sfondare la barriera della quarta parete, quel muro immaginario che ci divide nella vita, e non ci permette di relazionarci gli uni agli altri in modo da far capire che in realtà siamo tutti uguali e tutti diversi: attori che recitano la loro parte da disabile, da guerriero, da miss, da intellettuale etc… nello stesso medesimo film: questa era la mia meta, il mio obiettivo relativo, il mio messaggio subliminale, il mio scopo sublime.
  L’arte della/nella vita come arte di vivere autocoscientemente, e non come arte della sopravvivenza. 
Vita come opera d’arte performativa nel senso di ritrovarsi dentro la propria opera d’arte senza subirla in modo passivo, ma diventando artefice del proprio destino creando un’ arte esistenziale e concettuale insieme, arte autocosciente. 
Ho proseguito facendo teatro, cinema e video, sempre alla ricerca di nuove autorappresentazioni artistiche.
 La mia vita resta comunque una lunga performance: ogni mia azione, ogni mia uscita è una esibizione, una provocazione al senso comune di normalità, una trasgressione automatica, involontaria che costringe a una sorta di rifondazione dei principi dell’arte e dell’ artista, a costruire nuovi parametri, nuovi paradigmi  mettendo in discussione mode e stili.
 Arte come lotta, come esperienza non ideologizzata, il mio percorso resta una sfilata continua su una  passerella riflessa da uno specchio, lo specchio liquido della  vita.

ANTONIETTA LATERZA

Tutto è dir tutto e le parole mancano - Michela Turra

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.” Così recita l’articolo 21 della Costituzione italiana, eppure a chi non è capitato di imbattersi in limitazioni determinate da altri della propria espressione, orale o scritta? 
Nel giornalismo è pressoché inevitabile scontrarsi con un titolo – fatto da terzi, cioè da chi sta al desk - che non accontenta l’autore dell’articolo, cioè non ne riflette lo spirito o mira ad enfatizzarne solo un aspetto. Nella scrittura narrativa possono esistere censure più sottili, può accadere che l’editore chieda di tagliare o modificare un passo poco politically correct. 
A volte si tratta solo di divergenze di gusti, di orientamenti, in sostanza di persone; più spesso però, la censura – o nel migliore dei casi la “correzione”- scatta perché le case editrici, come i giornali, hanno un padrone, e non se ne può prescindere. 
Avere coraggio significa non rinunciare a se stessi e alle proprie idee, pagare il prezzo che celebri e meno celebri firme stanno ancora scontando sulla propria pelle a livello di vita quotidiana, nel peggiore dei casi blindata da scorte e percorsi obbligati, o semplicemente afflitta da contestazioni e diatribe legate al proprio operato. 
E anche nel privato, a chi non è capitato di reprimersi in nome del quieto vivere, generando poi spiacevoli equivoci sottotraccia? Come scrive Paul Elouard: 

“Tutto è dir tutto e le parole mancano
E il tempo manca e mi manca l'audacia
Sogno e spartisco a caso le mie immagini
Ho mal vissuto e mal appreso a parlar chiaro… 

Dire tutto macigni strade lastrici
Le vie i viandanti i campi ed i pastori
Le piume dell'aprile la ruggine d'inverno
Freddo e caldo congiunti in un frutto unico. (....)”
Le parole di un poeta, al cuore, dicono più delle leggi. 

MICHELA TURRA